
La generazione “di mezzo” e il paradosso dell’esperienza dimenticata
«A 50 anni sono amareggiata. Ho cambiato visione della vita, so cosa cerco in un lavoro oggi. Ma non trovo uno spazio in cui realizzarmi davvero. Mi guardo indietro e penso ai primi dieci anni della mia carriera: mi dicevano “fai esperienza, vedrai che poi arriveranno i riconoscimenti, le responsabilità”. Ma quel “poi” sembra non arrivare mai. Ora chi va in pensione passa il testimone direttamente ai giovani. E noi? Noi siamo diventati invisibili.»
Queste parole, raccolte durante una sessione di mentoring, riflettono un sentimento sempre più diffuso tra chi oggi ha tra i 45 e i 55 anni. È una fascia che si trova spesso sospesa: troppo giovane per essere considerata “autorevole” per definizione, troppo vecchia – secondo pregiudizi ancora radicati – per essere considerata “innovativa” o “digitale”.
La generazione dimenticata?
Parliamo degli ultimi nati della Generazione X (indicativamente 1965-1980), coloro che hanno iniziato a lavorare in un mondo profondamente diverso da quello attuale. Un mondo analogico, dove la carriera era spesso lineare, le promesse di crescita legate alla pazienza e all’impegno.
Eppure, questa è anche la generazione che ha affrontato con flessibilità e resilienza i più drastici cambiamenti tecnologici degli ultimi decenni. Hanno iniziato con la macchina da scrivere, sono passati al personal computer, hanno visto nascere e tramontare il fax, hanno vissuto l’intero ciclo evolutivo del telefono cellulare, fino a diventare oggi utenti competenti degli smartphone e delle piattaforme digitali.
Sono i veri “ponte generazionale” tra analogico e digitale. Hanno dovuto apprendere in corsa, adattarsi, cambiare strumenti e modi di lavorare almeno tre o quattro volte nell’arco della loro carriera. Un capitale di adattabilità e competenza trasversale che raramente viene valorizzato appieno.
Il paradosso del “non più, ma non ancora”
Secondo i dati ISTAT 2023, il tasso di occupazione nella fascia 50-54 anni è del 70,1%, in aumento grazie al progressivo innalzamento dell’età pensionabile. Tuttavia, resta bassa la qualità dell’occupazione in termini di coerenza tra ruolo, competenze e aspettative di carriera.
In parallelo, l’indice di sostituibilità generazionale mostra come, in molti settori, i ruoli lasciati dai senior vengano spesso assegnati direttamente a profili più giovani, lasciando fuori proprio la fascia intermedia: quella con più esperienza, ma anche con meno visibilità.
È un cortocircuito. Perché chi ha fatto “tanta esperienza” oggi non sempre trova uno spazio in cui farla valere. E chi prometteva crescita graduale, oggi scommette sul ricambio rapido.
Oltre l’età: una questione culturale
Secondo l’indagine Eurofound 2022, i lavoratori over 50 mostrano livelli di engagement, affidabilità e motivazione alla formazione più alti della media. Tuttavia, la narrazione dominante tende ancora a leggere questa fascia anagrafica come “in uscita” anziché come una risorsa attiva e in evoluzione.
Il passaggio generazionale non può essere una semplice staffetta tra “vecchi” e “giovani”. Serve un approccio integrato che riconosca il valore dei percorsi, delle traiettorie, delle transizioni personali. Le organizzazioni che investono nel dialogo intergenerazionale, nel mentoring reciproco e nella diversità generazionale sviluppano maggiore resilienza, innovazione e benessere interno.
Riconoscere, non sostituire
Essere amareggiati a 50 anni non è un segnale di debolezza. È un sintomo di un modello organizzativo e culturale che ha cambiato le regole del gioco senza aggiornare il manuale d’uso. La Generazione X non chiede privilegi: chiede riconoscimento. E porta in dote esperienza, capacità di adattamento e una visione del lavoro più umana e sostenibile.
La vera sfida, oggi, è costruire ecosistemi lavorativi dove ogni generazione possa trovare il proprio posto, contribuendo in modo autentico alla creazione di valore. Perché l’età, da sola, non è mai stata un limite. Ma l’assenza di ascolto, sì.
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